Iron Maiden: l’Heavy Metal sono loro

di Roberto Vanazzi 26 ottobre 2010
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Mi spiace ma sarò lungo. Primo, perché la storia degli Iron Maiden è ampia e variegata. Secondo, è questo il gruppo che mi ha aperto tutti gli orizzonti dell’Heavy Metal. La prima volta che li ho ascoltati, precisamente con l’album The Number Of The Beast, è stata una folgorazione. Da lì, per quanto mi riguarda, è partito tutto.

Le origini degli Iron Maiden risalgono al 1975, quando il bassista Steve Harris, ex membro degli Smiler, dopo i rituali cambi di formazione ha radunato attorno a se il cantante Paul Di Anno, il chitarrista Dave Murray e il batterista Dough Samson, e con essi ha iniziato ad esibirsi  al Ruskin Arms, e in altri pochi locali di Londra aperti al Heavy Metal, con il nome del noto strumento di tortura medievale. Inciso un demo tape, grazie al DJ Neal Kay che l’ha lanciato per radio, il gruppo ha ottenuto un insperato successo. La conseguenza è stata la registrazione dell’EP The Soundhouse Tapes, che in breve tempo ha esaurito le 5000 copie di tiratura.

Risale a quel periodo anche la nascita della mascotte del gruppo, il mostruoso Edward the Head, meglio conosciuto come Eddie, che da allora comparirà in tutte le copertine dei dischi e farà anche le sue apparizioni sul palco durante le esibizioni live.

Nel 1979 la cosiddetta New Wave Of British Invasion ha trovato negli Iron Maiden il proprio punto di forza, così, a dicembre il gruppo è stato messo sotto contratto dalla EMI. Nell’aprile dell’anno seguente, con Clive Burr al posto di Samson e Dennis Stratton ad affiancare Murray come secondo chitarrista, è stato pubblicato l’omonimo Iron Maiden, LP d’esordio che ha raggiunto senza difficoltà il quarto posto nella classifica inglese nonostante si fosse nel pieno boom dell’era Punk. I brani, grezzi e diretti, hanno dato vitalità al rock duro di matrice anglosassone, enfatizzando il ruolo della sezione ritmica e delle combinazioni fra le due chitarre: Iron Maiden, Prowler, Charlotte The Harlot, storia di una prostituta che forse è esistita veramente, l’orecchiabile Runnig Free, la strumentale Transylvania e, soprattutto, Phantom Of The Opera, che da il via alla lunga serie di brani tratti da opere letterarie, storiche e teatrali, che hanno caratterizzato tutta la discografia del gruppo sino ad oggi.

A ottobre, dopo un tour con Judas Priest e Kiss e dopo l’acclamazione al Festival di Reading, Stratton ha lasciato, sostituito dall’ottimo Adrian Smith.

Killers è uscito a febbraio 1981, confermando quanto di buono si era fatto con il disco precedente. È stato allora che gli Iron hanno iniziato la collaborazione con Martin “Headmaster” Birch, già produttore di Black Sabbath e Deep Purple. Sarà lui l’uomo che farà compiere alla band il definitivo salto verso il successo internazionale.
L’intro del disco è la strumentale The Ides Of March, la quale da il via alla feroce Wrathchild. La title track e la biblica Prodigal Son sono stupende, anche se il pezzo forte rimane l’omaggio a Edgar Allan Poe Murders In The Rue Morgue. Come in Iron Maiden, anche qui è presente un brano strumentale, nella fattispecie Genghis Khan.

Terminato l’imponente tour in terra nipponica, dal quale è stato tratto l’EP live Maiden Japan, Paul Di’Anno è stato allontanato per problemi legati alla droga. Il nuovo singer del gruppo è diventato a quel punto Bruce Dickinson, ex Samson, dotato di voce potente e notevole carisma, il quale ha debuttato proprio su un palco in Italia.

Nel 1982 ecco il masterpiece degli Iron Maiden, The Number Of The Beast. L’album, più maturo e duro rispetto ai precedenti, ha esordito al primo posto in Inghilterra, mentre negli USA ha guadagnato addirittura il Disco di Platino.
Nella track list è presente il mio brano preferito del gruppo, quella Halloweed Be Thy Name che descrive le ultime ore di un condannato a morte. Tutto il disco comunque è bellissimo: la title track, con la famosa citazione del brano dell’Apocalisse di San Giovanni dove si parla del 666 quale numero di Satana, Run To The Hills, che narra della guerra fra indiani d’America e coloni, la semi-ballad Children Of The Damned, 22 Acacia Avenue, dove si prosegue la saga di Charlotte the Harlot, The Prisoners e la descrizione dell’invasione vichinga dell’Inghilterra di Invaders.
C’è anche da dire che The Number Of The Beast è l’album che ha aperto la strada al metal del futuro, quello che ha tracciato la rotta alle band che da quel momento in poi hanno deciso di suonare quel genere di musica.

Con l’ingresso di Nicko McBrian al posto di Burr la formazione del gruppo ha assunto a quel punto il suo assetto definitivo. L’esordio per quella che è considerata la line up classica dei Maiden, è arrivato con l’album Piece Of Mind, datato 1983. Si tratta di un lavoro di transizione, più melodico rispetto a The Number Of The Beast, sicuramente inferiore, che trova i suoi punti di forza in brani quali Where Eagles Dare ispirata dall’omonimo libro di Alistair Maclean, Revelations, To Tame A Land, basata su un romanzo di Frank Herbert, The Trooper, che parla di un soldato della prima guerra mondiale durante la guerra di Crimea, e l’orecchiabile Flight Of Icarus.

Decisamente migliore è stato il disco dell’anno seguente: Powerslave. Esso è incentrato sul tema dell’antico Egitto, anche se l’unico brano che parla di questo è la title track. Aces High, infatti, è dedicata ai piloti inglesi della Seconda Guerra Mondiale, mentre Two Minutes To Midnight descrive gli ultimi attimi prima dell’inizio della guerra atomica. L’eletrizzante Flash Of The Blade, finita nella colonna sonora di Phenomena di Dario Argento, parla di un ragazzo che crescendo diventa un guerriero e The Duellist è tratta da un vecchio film di Ridley Scott.  Il top, però, è raggiunto con i 14 minuti della magnifica Rime Of The Ancient Mariner, liberamente tratta dal poema di Samuel Taylor Coleridge. Ricordo ancora quando all’esame di maturità ho stupito la commissione citando a memoria brani della ballata imparati ascoltando la canzone (grazie Iron).

Al disco è seguita la più grande tournée mai sostenuta da un gruppo rock, il World Slavery Tour, degnamente rappresentato dal doppio Live After Death. Il disco si apre con un discorso di Winston Churchill, poi spara tutte le sue cartucce. In esso sono presenti anche alcune battute di Bruce Dickinson passate alla storia, come “Scream for me Long Beach” prima dell’assolo di Halloweed Be Thy Name. Da allora, in ogni concerto, in quel punto del brano il cantante urla “Scream for me…” e il nome della città in cui si trova. Durante il Monster Of Rock a Modena del 1988, ad esempio, Bruce ha gridato “Scream for Me Milano” beccandosi qualche fischio di scherno.

Con il lavoro successivo, Somewhere In Time, troviamo in copertina Eddie che si muove in una città del futuro. Anche il suono è più moderno; si è allontanato dal grezzo HM degli inizi per promuovere le chitarre synth, fatto questo che ha fatto storcere il naso a parecchi fan.
L’opening track è Caught Somewhere in Time, seguita dall’orecchiabile Wasted Years, scritta da Adrian Smith. Molto belle sono The Loneliness Of The Long Distance Runner, che descrive la solitudine di un maratoneta durante la corsa, Stranger In A Strange Land e, soprattutto, la lunga suite storica Alexander The Great, la quale ripercorre la saga di Alessandro Magno.

Nel 1988 è uscito Seventh Son Of The Seventh Son l’ennesimo disco tecnicamente ineccepibile. Esso è l’unico concept-album scritto dal gruppo londinese, un lavoro permeato di temi fantastici, visioni mistiche e profezie che, musicalmente, fa un ulteriore passo avanti verso la modernizzazione del sound con l’aggiunta delle tastiere, usate non tanto per fare armonia (alla Deep Purple, per intenderci) ma piuttosto come sottofondo, per creare atmosfera. Fra tutte le canzoni scelgo la dura Moonchild, la progressiva Infinite Dreams, che parte lenta per poi aumentare di ritmo, il singolo orecchiabile Can I Play With Madness, i 10 minuti della variegata Seventh Son Of A Seventh Son e la Shakesperiana The Evil That Man Do.

L’anno successivo è uscito il live Maiden England, registrato a Birmingham.

Il nuovo decennio è aperto dagli Iron con l’uscita di scena di Adrian Smith e l’arrivo di Janick Gears, ex guitarist di Ian Gillan, al quale mancava l’intesa con Dave Murray. Il binomio Murray-Smith, infatti, ha sempre avuto qualche cosa di magico. Il cambio ha influito negativamente anche sul nuovo lavoro, No Prayer For The Dying, che si è rivelato un mezzo passo falso. Il disco, infatti, ha tentato di riportare il suono ai tempi precedenti Somewhere In Time, in altre parole senza tastiere e chitarre synth, ma con brani che non erano all’altezza, esso è risultato privo di mordente. Il migliore è senza dubbio quello che gli da il nome, seguito da Holy Smoke e Hooks In You, la quale presenta il lieto ritorno di Charlotte The Harlot dopo 8 anni di assenza. Mother Russia, che chiude la track list, è uno scialbo tentativo di salutare la caduta del muro di Berlino e l’avvento di una nuova era nella terra degli Zar.

Harris e soci si sono riscattati prontamente con Fear Of The Dark, pubblicato nel maggio del 1992. Lavoro aggressivo e potente, si apre con la veloce Be Quick Or Be Dead, che ci riporta ai tempi di Aces High, per proseguire con From Here To Eternity, la quale chiude in modo definitivo la storia di Charlotte. Quindi la mia preferita, Afraid Of Shoot Strangers, che offre tre cambi di ritmo e parla di un soldato in partenza per la Guerra Del Golfo. Per finire con Wasting Love, l’unica ballad che parla d’amore degli Iron Maiden e, naturalmente, la splendida Fear Of The Dark.

A quel punto il gruppo ha intrapreso l’ennesimo, lunghissimo tour, il Real Live Tour, sfociato nei due dischi, venduti separati, A Real Dead One e A Real Live One, in seguito uniti nel doppio A Real Live Dead One.

Purtroppo, a quel punto Bruce Dickinson ha abbandonato i compagni per intraprendere la carriera solista, e le fortune della band hanno subito una leggera deflessione. Il nuovo cantante, Blaze Bayley, era dotato di una voce più cupa rispetto a Bruce e ha dato ai due dischi cui ha partecipato un’impronta vicina al dark metal.
Il primo di questi, The X Factor, uscito nel 1995, si apre con un canto gregoriano in stile Black Sabbath, il quale fa da intro alla bella The Sign Of The Cross, ispirata al romanzo di Umberto Eco Il nome della rosa. Gli altri brani si muovono su livelli più o meno mediocri: l’orecchiabile Lord Of The Flies, Man Of The Edge, The Aftermath e The Unbeliever.

L’altro lavoro con Bayley è uscito tre anni più tardi e s’intitola Virtual VI., un album sperimentale che ha deluso fan e critica ed è unanimemente considerato il peggiore della band inglese. Il brano più bello è senza dubbio The Clansman, che descrive la battaglia dei guerrieri scozzesi contro l’esercito inglese. Non male anche l’epica Don’t Look to the Eyes of a Stranger e Lightning Strikes, uno dei pochi pezzi che ricordano i vecchi Maiden.

Notevolmente migliore è Brave New World, l’album che apre il nuovo millennio e che vede il ritorno alla base sia di Bruce Dickinson sia di Adrian Smith, i quali hanno portato nuova linfa al gruppo, o meglio, hanno riportato il vecchio vigore.  A quel punto, non intendendo licenziare Gears per lasciare spazio al figliol prodigo, Harris ha deciso di lavorare con tre chitarristi e gli Iron Maiden sono diventati un sestetto. Il disco è stupendo, con un suono potente e i brani tornati ad essere all’altezza della fama della band. Vi si trovano quelli lunghi e articolati, come la title track, la splendida Blood Brothers, The Nomad (di grande atmosfera il pezzo centrale), Ghost Of  The Navigator e la spigliata Out Of The Silent Planet, e altri più veloci ed immediati, come The Wicker Man, The Fallen Angel e The Mercenary.

Seguente alla partecipazione del gruppo all’evento Rock In Rio, naturalmente a Rio De Janeiro, è stato pubblicato il doppio omonimo Rock In Rio. Da notare la versione proposta da Dickinson di brani quali The Clansman e The Sign Of The Cross che furono di Bayley.

Nel 2003 è stato rilasciato il tredicesimo album da studio degli Iron: Dance Of Death. Si tratta di un disco più vario rispetto a Brave New World, con le canzoni più veloci e orecchiabili a prevalere su quelle lunghe. Le mie preferite sono No More Lies, che presenta una bella cavalcata a tre chitarre, e la splendida suite Paschendale. Quindi le veloci Wildest Dreams, Rainmaker e Montségur, l’articolata title track e Journeyman, il secondo brano acustico della band dopo Prodigal Son del 1980. In Face Of The Sand, brano dall’andamento solenne, in crescendo, Nicko si è cimentato per la prima volta con la doppia pedaliera.

Due anni più tardi è uscito un altro doppio live, Dead On The Road, che racconta il concerto tenuto a Dortmund durante il tour per promuovere Dance Of Death.
In quel periodo l’ex batterista del gruppo, Clive Burr, ha scoperto di essere affetto da sclerosi multipla. Essendo le cure mediche molto dispendiose, gli Iron Maiden hanno eseguito una serie di concerti per beneficienza chiamati Clive Aid, ai quali hanno partecipato molte altre star del metal.

A Matter Of Life And Death
è datato 2006 e presenta brani molto lunghi, con numerosi cambi di tempo e ritmo tipici del progressive metal. The Longest Day, che racconta lo sbarco in Normandia, la suite For The Greater Good Of God, la semi-ballad Out Of The Shadows, l’orientale The Pilgrim e The Reincarnation of Benjamin Breeg sono i pezzi più belli.

Dopo un tour mondiale durato 13 mesi, il Somewhere Back In Time World Tour, gli Iron sono tornati in studio e hanno registrato quello che fino ad ora è il loro ultimo lavoro: The Final Frontier, arrivato nei negozi nell’agosto di quest’anno con tanto di esordio direttamente in cima alle hit parade britanniche. L’album presenta ancora una volta una serie di ottime canzoni, quali la title track, che parla di un astronauta irrimediabilmente perso nello spazio, El Dorado, l’epica Isle Of Avalon, The Talisman e gli 11 minuti di When The Wild Wind Blows.

Dopo 35 anni questi ragazzi inossidabili non sono cambiati di una virgola. È difficile trovare una carriera che in un arco così lungo di tempo ha ottenuto così poche battute d’arresto. Dopo tutti questi anni, i milioni di dischi venduti e altrettante città toccate dal loro palco, la musica della “Vergine di ferro” continua a raccogliere consensi e continuerà a farlo ancora per molto, molto tempo.

3.50 avg. rating (74% score) - 2 votes

3 risposte a “Iron Maiden: l’Heavy Metal sono loro”

  1. Denny ha detto:

    Ottima recensione!

  2. Arwen ha detto:

    Non ci sono solo loro nell’Heavy Metal, ci sono band pure molto meglio di ‘sti Maiden …

  3. Arwen ha detto:

    Come per esempio i Judas Priest che hanno fatto album decisamente migliori con cambi di sonorità a ogni disco e sono stati pertanto definiti “Metal Gods”!!!!!!…..