Pubblicato in: Reggae e Ska

Bob Marley, il profeta del reggae

di Roberto Vanazzi 10 settembre 2010
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Robert Nesta Marley è nato il 6 febbraio 1945 a Nile Mile, naturalmente in Giamaica, da padre inglese e madre indigena, anch’essa cantautrice. Abbandonato dal padre quando era ancora bambino, compiuti i 16 anni ha iniziato la carriera artistica incidendo un brano con un Revox a due piste. L’anno successivo Jimmy Cliff, impressionato dalle doti compositive del ragazzo, lo ha introdotto al boss dell’industria discografica giamaicana Lesley Kong, che gli ha fatto incidere i primi hit della carriera: Judge Not e One More Cup Of Coffe.

Nel 1964, sotto la guida di Joe Higgs, Bob ha formato i Wailing Rudeboy, il cui nucleo centrale comprendeva Peter Tosh e Bunny Livingston, ai quali in seguito si sono associati Junior Braithwaite e Beverley Kelso. Il gruppo, ribattezzato Wailers, si è fatto presto conoscere nel Paese centroamericano, ottenendo una piccola serie di successi con brani dal caratteristico accento metrico in levare tipico del Reggae, come ad esempio Simmer Down e Love And Affection.

Nel 1969 sono entrati nella band i fratelli Carlton e Aston Burrett e i Wailers hanno consolidato la propria popolarità con dischi che hanno ottenuto buone vendite locali. In quel periodo Bob aveva già aderito alla fede rastafariana e iniziava a sfoggiare la caratteristica acconciatura con i dreadlocks.

Due anni più tardi Marley ha fondato la Tuff Gong, ovvero la prima etichetta indipendente giamaicana, quindi ha accettato l’invito di Johnny Nash a recarsi in Svezia per registrare alcune colonne sonore.

Nel 1972 il capo della Island Records, Chris Blackwell, da sempre innamorato della musica caraibica, ha scritturato i Wailers e ha pubblicato Catch A Fire, disco che li ha consacrati stelle internazionali. Tutti i brani sono a firma di Bob Marley, tranne Stop That Train scritta da Peter Tosh. I migliori, a mio giudizio, sono Stir It Up, Concrete Jungle e No More Trouble.

L’anno seguente sono usciti due lavori: African Herbsman, che contiene un classico come Trenchtown Road e Burnin’. In quest’ultimo sono presenti i singoli Get Up Stand Up, che diventerà l’inno di Amnesty International, e I Shot The Sheriff, il quale sarà coverizzato con successo da Eric Clapton nel 1974.

Proprio nel 1974, Tosh e Livingston hanno lasciato l’amico per realizzare una carriera individuale, che si rivelerà per entrambi molto fortunata. Per sostituirli Marley ha chiamato Bernard Harvey, Al Anderson e il trio vocale tutto al femminile I Threes, nel quale cantava anche sua moglie Rita. Da quel momento il gruppo si è chiamato Bob Marley and The Wailers.

Il primo album della nuova band è stato Natty Dread, nel 1975, e con esso la popolarità di Bob ha varcato i confini della Giamaica, grazie anche ad un tour su larga scala. Il pezzo pregiato di questo disco è senza dubbio No Woman Non Cry, grido di guerra, più che canzone d’amore. Ma ci sono anche Revolution, Them Belly Full (But We Hungry), la religiosa So Jah Seh, scritta da Rita Marley, la romantica Bend Down Low e Lively Up Yourself, che celebra la religione rastafari.


C’è da dire che questo LP ha delineato con maggiore chiarezza proprio la fede rastafari. Bob è diventato il portavoce della protesta contro gli oppressori, rivendicando una fuga dal capitalismo occidentale (chiamato Babilonia) e un ritorno in Africa. Da qui in avanti la religione sarà un punto chiave della musica di Marley, anche se una definizione più concreta della dottrina rasta arriverà soltanto più avanti. In quel momento, infatti, religione e politica erano ancora ben amalgamate tra loro.

Nel medesimo anno è uscito il disco registrato dal vivo a Londra, intitolato semplicemente Live, mentre in quello seguente è stato rilasciato Rastaman Vibration, che prosegue il discorso di Natty Dread con splendide tracce quali War, Positive Vibration, Roots Rock Reggae e Night Shift.

La filosofia pacifista, i proclami di uguaglianza e di liberalizzazione della marijuana, i tentativi di riavvicinare i due gruppi politici giamaicani in guerra tra loro, hanno trasformato Bob praticamente in una guida spirituale, e proprio per queste sue convinzioni nel 1976 lui, la moglie e il manager Don Taylor hanno subito un attentato. Si è trattato di un vero e proprio assalto alla loro casa da parte di un gruppo armato che, fortunatamente, non ha provocato altro che spavento e qualche ferita. Due giorni più tardi Bob è salito comunque sul palco per il concerto benefico denominato “Smile Jamaica”.

Trasferitosi in Inghilterra, nel 1977 è stato registrato l’ottimo Exodus, che contiene brani storici come la title track, Jamming, Is This Love, The Heathen, Three Little Birds, Waiting In Vain, nei quali sono sviscerate complesse tematiche politico-religiose.

Subito dopo l’uscita dell’album a Bob Marley è stato diagnosticato il melanoma che lo avrebbe portato alla morte. Ciò non ha però impedito al musicista di lavorare e l’anno seguente è stato pubblicato il più commerciale Kaja. Anche questo LP è stato ben accolto dalla critica e presenta altre gemme come Satisfy My Soul, Kaja, Misty Morning e Easy Skanking.

Nel 1979, annunciato da un copertina che contempla tutte le bandiere degli stati africani a significare l’unità per il Continente Nero, è uscito Survival, il disco più politico del Profeta del Reggae. Africa Unite, So Much Trouble in the World, Babylon System, Ride Natty Ride, Ambush in the Night, che parla dell’attentato da lui subito, e Zimbabwe sono i brani migliori.

L’anno dopo è arrivato l’ultimo album di Marley: Uprising. Ricco di significati religiosi, Uprising ci regala Could You Be Loved, Comining In From the Cold, Work e, soprattutto, la commovente Redemption Song.

È stato per l’Uprising Tour che, il 27 e il 28 giugno 1980 Bob è calato in Italia per due concerti memorabili. Il primo, di fronte a centomila persone, allo stadio San Siro di Milano. Il secondo al Comunale di Torino.

Il tumore però stava avanzando e lo stato di salute del cantante era ormai grave. L’ultimo concerto lo ha tenuto sul palco di Pittsburgh, il 23 settembre 1980. Poi, l’11 maggio 1981, Bob Marley è deceduto in un ospedale di Miami.
Tutta la Giamaica si è mobilitata e per lui si sono svolti dei funerali di Stato. Il suo corpo è stato tumulato in una piccola cappella vicino al villaggio in cui è nato. A tenergli compagnia alcuni fra gli oggetti che gli erano più cari: la Gibson Les Paul, una Bibbia, un pallone da calcio, l’anello donatogli da un principe etiope e una pianta di marijuana.

Un mese più tardi gli è stato conferito il Jamaican Order Of Merit, mentre nel 1994 è stato introdotto nella Rock’n’Roll Hall Of Fame.
Ogni 6 febbraio poi, per celebrare il suo compleanno, in Giamaica è celebrata una festa in suo onore.

Nel 1983 è uscito postumo l’album Confrontation, che contiene singoli mai registrati in precedenza come la famosa Buffalo Soldier, ma anche Blackman Redemption, Give Thanks and Praise e Rastaman Live Up!

L’anno seguente la raccolta Legend, avendo venduto oltre 10 milioni di copie, è stata certificata 10 volte Disco di Platino, ovvero Disco di Diamante.


A 20 anni di distanza, il mito di Bob Marley, della sua musica, della sua filosofia, è più viva che mai e continua a fare proseliti. Mi sembra giusto chiudere questa breve biografia con le ultime parole che il Profeta del reggae ha pronunciato prima di morire, rivolgendosi al figlio Ziggy: “I soldi non comprano la vita!

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