Festival di Woodstock: un sogno lungo tre giorni

di Roberto Vanazzi 1 settembre 2010
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La folla radunata a Woodstock

Se mai c’è stato un evento musicale che ha segnato indelebilmente un’epoca questo è senza ombra di dubbio il festival di Woodstock. Esso, infatti, va ben oltre la semplice esibizione di artisti. Alle sue spalle c’è tutto un proliferare di movimenti culturali ( I Figli dei Fiori, ad esempio), di proteste politiche e nuove ideologie. Con Woodstock si è assistito alla nascita di una nuova era, anche se forse è più giusto dire che è stato l’epilogo di un momento storico zeppo di fermenti e conflitti, non ultimo la guerra del Vietnam. L’episodio in se è ricco di dietrologie e sull’argomento ci sarebbe da parlare (scrivere) per ore. Per quanto mi riguarda lascio ad altri questo compito e provo a raccontare solo di quella che alla fine è stata la regina del festival: la musica.

Il 15 agosto del 1969 più di mezzo milione di giovani si sono ritrovati presso la fattoria dell’allevatore Max Yasgur nella piccola cittadina rurale di Bethel, a 70 chilometri da Woodstock (stato di New York), per assistere a quello che sarebbe diventato il più celebre festival musicale della storia. All’ombra dello slogan “tre giorni di pace, e musica” si sono alternati sul palco alcuni tra i migliori artisti che il panorama mondiale di quel periodo aveva a disposizione, dando vita ad una serie di esibizioni che sono entrate nella leggenda. E come ogni leggenda che si rispetta, anche quella di Woodstock abbonda di aneddoti. Ad esempio, forse non tutti sanno che giusto una settimana prima dell’inizio il concerto stava per saltare, in quanto i proprietari confinanti di Yasgur si erano opposti alla manifestazione per timore di disordini. È stato solo grazie all’intervento della Warner Bros, promotrice di un film-documentario e di due LP, che con i suoi dollari ha risolto la questione. I tanto temuti disordini alla fine non si sono verificati. Le risse sono state subito sedate dal servizio d’ordine effettuato da volontari e l’unico episodio scabroso, se così si può definire, è stato lo scontro tra Pete Townshend degli Who e il capo degli Hippies Abbie Hoffman.  I decessi sono stati tre, uno a causa di un’overdose, uno per appendicite e il terzo investito da un trattore mentre dormiva nel suo sacco a pelo, bilanciati da 2 nascite.

Joan Baez e Ravi Shankar

Ad aprire, alle 17,00 di venerdì 15 agosto, è stato Richie Havens. Accolto con entusiasmo, il cantante afroamericano ha continuato a suonare bis finché, esaurito il proprio repertorio, ha deciso di improvvisare una versione di Motherless Child con l’aggiunta della parola “freedom” ripetuta in continuazione. Questo brano è diventato uno dei simboli del festival.
Dopo la benedizione del santone indiano Swami Satchidananda, è stata la volta degli Sweetwater, i quali avrebbero dovuto aprire il festival, ma alla fine hanno deciso di fare esibire solo il loro leader, Richie Havens appunto.
A seguire: Bert Sommer, Tim Hardin, che con 2 soli brani in scaletta è riuscito a suonare per più di un’ora, il virtuoso del sitar Ravi Shankar (papà di Norah Jones), Melanie Safka, Arlo Guthrie, figlio del grande Woody, e, ultima della giornata, dalla 1,00 alle 2,00 del mattino, Joan Baez. La folk singer è salita sul palco incinta di sei mesi e ha introdotto il suo primo brano, Joe Hill, con un discorso dedicato al marito David Harris, detenuto in carcere in quanto obiettore di coscienza.

Sabato 16 agosto si è iniziato alle 13,00 circa con la musica dei Quill. Successivamente è stato fatto salire a sorpresa sul palco Country Joe McDonald, il quale avrebbe dovuto esibirsi il terzo giorno, ma il ritardo di qualche artista ha costretto gli organizzatori a tappare il buco con il cantautore di Los Angeles, senza la sua band di supporto. Egli ha eseguito l’inno contro la guerra del Vietnam, nonché suo cavallo di battaglia, The Fish Cheer / I-Feel-Like-I’m-Fixin’-To-Die Rag.
Poi è toccato all’ex leader dei Lovin’ Spoonful John B. Sebastian, che è salito sul palco  sotto l’effetto della marijuana. Sebastian, ha dedicato la canzone Younger Generation al figlio nato proprio quel giorno.

Country Joe

A ruota della Keef Hartley Band, alle 17,00 è arrivato Carlos Santana, che ha sciorinato una performance eccezionale, con brani quali Soul Sacrific e Evil Ways.
Quindi il gruppo folk scozzese The Incredible String Band, i grandissimi Canned Heat (bellissime Woodstock Boogie e Going Up The Country), i Mountain e, a mezzogiorno, gli altrettanto mitici Grateful Dead, i quali sono stati interrotti da un problema di messa a terra difettosa, mentre suonavano Turn On Your Love Light, con Jerry Garcia e Bob Weir che hanno preso una scossa toccando le chitarre.

Carlos Santana

Dopo i Dead si sono esibiti i Creedence Clearwater Revival e a seguire Janis Joplin, che ha regalato agli spettatori perle del calibro di Raise Your Hand, To Love Somebody, Summertime, Piece Of My Heart e Ball & Chain. Purtroppo il tutto è stato rovinato dal fatto che la regina del blues bianco, di fronte ad un’attesa di 10 ore dal suo arrivo al momento dell’esibizione, ha ammazzato il tempo facendosi di eroina e bevendo alcolici, i quali hanno influito negativamente on stage.

La giornata era ben lontana dal terminare. Dopo la bella prova di Sly & The Family Stone, alle 5 di mattino il sole è sorto con le note degli Who. Un’ora e mezza piena di energia, nella quale, oltre a classici quali My Generation, I Can’t Explain e Shakin’ All Over, la band inglese ha proposto buona parte del loro ultimo lavoro Tommy. A fine esibizione Townshend ha distrutto la chitarra e l’ha lanciata in mezzo al pubblico.
Alle 9,00 ha preso il loro posto un altro dei gruppi mito di quel periodo , i Jefferson Airplane. La band di Marty Balin ha concluso il secondo giorno del Festival di Woodstock proponendo pezzi psichedelici come Somebody To Love, Volunteers, Wooden Ships, White Rabbit, Eskimo Blue Day e altri ancora.

Arriviamo così all’ultimo atto di questo momento di Pace e Musica (entrambe con la lettera maiuscola). Ad aprire la giornata di domenica, alle 15,30, un big come Joe Cocker. Accompagnato dalla sua Grease Band, il cantante di Sheffield ha interpretato una delle migliori esibizioni del festival, grazie a Let’s Go Get Stoned, With A Little Help From My Frieds, cover dei Beatles, Dear Landlord e la rivisitazione di Delta Lady di Leon Russell.

Joe Cocker

A quel punto un forte temporale ha interrotto il concerto per almeno 4 ore. Alla ripresa è salito di nuovo sul palco Country Joe McDonald, questa volta accompagnato dal suo gruppo, The Fish.
Quindi il pubblico ha assistito per un’ora alla classe cristallina dei Ten Years After di Alvin Lee: mirabolante l’interpretazione di I’m Goin’Home.

A seguire The Band, che era stato per qualche tempo il gruppo di supporto di Bob Dylan, il texano Johnny Winter, accompagnato in un paio di canzoni dal fratello Edgar Winter, Blood Sweat & Tears, fautori di un ottimo jazz-rock, e, alle 3 del mattino, Crosby Stills Nash & Young. Questi ultimi hanno suonato per 90 minuti, dividendo in due parti la loro esibizione, la prima in versione acustica e l’altra elettrica. Nel concerto unplugged Neil Young ha suonata solo in Mr. Soul e Wonderin’, ovvero le due canzoni scritte da lui.

La giornata è proseguita con le performance del bluesman Paul Butterfield e la sua band, dei Sha-Na-Na, autori di un elettrizzante Rock’N’Roll che ritroveremo nella colonna sonora di Grease e, a chiudere il festival, il grande Jimi Hendrix. Era stato Jimi in persona a chiedere di essere l’ultima star in scaletta. Egli, però, sarebbe dovuto salire sul palco attorno a mezzanotte, ma il prolungarsi delle esibizioni precedenti e il temporale lo hanno fatto slittare alle nove del mattino di lunedì. La maggior parte degli spettatori a quel punto se n’era andata, risucchiata dalla routine dei giorni feriali, così solo in 80.000 hanno assistito al suo show pirotecnico. Spanish Castle Magic, Red House, Foxy Lady, Purple Haze, Woodoo Child, la mitica versione di The Star-Spangled Banner, l’inno Americano suonato con la chitarra distorta ad imitare le bombe e le urla della guerra del Vietnam, e la canzone che ha sancito la fine del raduno, Hey Joe: sono questi alcuni brani che il geniale chitarrista ha prodotto in 90 minuti.

Jimi Hendrix

Jimi Hendrix, CSN&Y, i Who e Joe Cocker sono state le stelle più brillanti del festival, anche se alcuni, dietro invito della Warner Bros, sono dovuti tornare in studio per rifare le parti vocali andate perse nell’enormità dell’audience all’aperto, in vista dei due albums, il doppio e il triplo.

Come la storia ci insegna, gli ideali prefissi dal popolo di Woodstock non si sono avverati. Troppo utopistici, forse fragili, sicuramente ingenui. Ciò non toglie, però, che per 3 giorni quei 600 acri di terreno sono stati un’isola felice, dove pace, fratellanza e amore libero ci sono stati davvero. E poi c’è la musica: quella, almeno, non morirà mai.

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